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lunedì 7 gennaio 2008

Una storia tutta italiana L’ANTI-PUBBLICITA’ CHE HA CAMBIATO I CONSUMI (e contribuito a trasformare la società italiana)

Trascrizione intervento alla serata "C'era una volta Carosello", 4 Gennaio 2008, Peccioli (PI)di Gian Luigi Falabrino

Molti di voi, o forse tutti (io no, perché nel ’57 ero già adulto), ricordano con affetto e nostalgia le storie e i cartoni di Carosello come le favole della propria infanzia. E non immaginano che quella formula, unica al mondo, fosse dovuta ad un compromesso, e alla volontà paradossale di non fare pubblicità, o almeno di annacquarla nello spettacolo, per non turbare le buone e frugali famiglie italiane. E’ un paradosso, che oggi è difficile comprendere, come è quasi impossibile immaginare come fosse la società italiana degli anni Cinquanta.

Eravamo un Paese bigotto, ipocrita e ancora molto autoritario, dove perfino un De Gasperi ritardò l’entrata in funzione della Corte Costituzionale e dove la Costituzione sembrava a molti un libro dei sogni. Negli anni Cinquanta, il vescovo di Prato chiamò “pubblici concubini” una coppia che si era sposata in Comune, e perse la causa in primo grado; ma allora il governo aveva ancora potere sui giudici e con un abile spostamento favorì la vittoria del vescovo in appello, così che allo sposo, che di professione faceva il macellaio, le banche tolsero il fido e lo portarono al fallimento. Era un Paese dove la censura cinematografica, ereditata dal regime fascista, imperversava per le vere o presunte offese al pudore, e l’ambasciatore americano dovette intervenire per salvare dalla censura un film dal titolo “La moglie del vescovo”, che era evidentemente un vescovo protestante. A sua volta, la censura teatrale faceva ritirare dalle scene “La Governante” di Vitaliano Brancati, con il pretesto di un legame saffico, ma in realtà perché la governante che comandava nella casa di un vecchio signore liberale era l’allegoria della Democrazia cristiana. In televisione, la RAI dovette mettere i mutandoni alle ballerine dopo uno spettacolo “scandaloso” di Alba Arnova che, danzando in calzamaglia, aveva provocato una telefonata ai dirigenti della RAI dalla suora-governante di Pio XII. Quanto alla “Dolce vita” di Fellini, il regista riuscì a superare il veto del Vaticano, soltanto ottenendo l’appoggio di un frate intellettuale, padre Arpa, che a sua volta riuscì a convincere qualche cardinale.

Vi potete chiedere che cosa c’entri tutto questo con la pubblicità e la formula di Carosello. C’entra perché l’Italia era un Paese sostanzialmente agricolo, tradizionale, pieno di funzionari ex fascisti, e perché le nuove classi dirigenti diffidavano della modernità, dell’industria e perfino dell’America. Pur legatissime agli Stati Uniti come al grande alleato che proteggeva l’Italia dai cosacchi che avrebbero abbeverato i loro cavalli in piazza San Pietro, erano in realtà molto distanti e addirittura ostili allo stile di vita americano. Molti dei capi della Democrazia Cristiana come Piccioni, venivano dal Partito popolare, che aveva avuto la sua base elettorale negli agricoltori, o dal partito dei contadini trentini come De Gasperi: avevano cioè una formazione culturale pre-industriale o addirittura anti-industriale, come gli stessi dirigenti della RAI.

Questi, che fossero cattolici come Filiberto Guala (che poi si fece frate trappista) e come il suo braccio destro Pier Emilio Gennarini, o massoni come Marcello Bernardi o liberali e laici come Bruno Vasari e Antonio Piccone Stella, diffidavano tutti dello stile di vita americano: la pubblicità avrebbe incentivato i consumi individuali ed edonistici, sarebbe stato il grimaldello che avrebbe portato ad aprire la porta all’etica del profitto e del divorzio. Alla metà degli anni Cinquanta, un documento interno della RAI affermava che il servizio pubblico non doveva portare gli interessi privati (cioè delle industrie) “nell’intimità della vita familiare”.

Inoltre, molti dirigenti della RAI venivano dal giornalismo, e portavano il pregiudizio dei loro colleghi della carta stampata: la pubblicità non era vista come un contributo all’economia dell’azienda, ma come una sottrazione di colonne agli articoli. Ma, soprattutto, c’era fortissima l’ostilità degli editori di giornali all’introduzione della pubblicità televisiva: da anni gli editori ed i giornalisti, che allora erano molto più proni di oggi ai padroni delle testate, conducevano una continua e ossessiva campagna contro il dilagare della pubblicità radiofonica; se la pubblicità fosse stata introdotta anche in televisione, i giornali sarebbero morti. Nessuno prevedeva che l’espandersi dei consumi e i freni, che poi furono imposti alla pubblicità televisiva, avrebbero favorito, come avvenne per tutto il tempo di Carosello, gli introiti pubblicitari della carta stampata.

Così, con un lungo lavoro durato per quasi tutto il 1956, alcuni dirigenti della RAI e della Sipra (cioè la società concessionaria dei tempi pubblicitari della radio, e poi anche della televisione) inventarono la formula ibrida di Carosello. Mentre tutto il mondo praticava gli spot di trenta secondi (con multipli e sottomultipli), con l’eccezione inglese dei 35”, che da trent’anni conosciamo anche noi, la formula di Carosello comportava uno “spettacolino” di un minuto e 40” seguito da un codino di 35”. Nello spettacolino era assolutamente proibito nominare il prodotto o alludervi, nel codino lo si poteva citare cinque volte.

C’è mistero sull’origine del nome (forse dovuto all’enorme successo del film “Carosello napoletano”) e sull’autore della formula. L’umorista Vittorio Cravetto ne ha rivendicato la paternità, contestata però da Riccardo Ricas, allora direttore commerciale della Sipra, e anche da Gino Sinopoli (condirettore della Sacis, altra emanazione della RAI) e da Giovanni Fiore, direttore commerciale della concessionaria di pubblicità della RAI. E’ probabile che tutti avessero partecipato ad un’invenzione collettiva.

Gli autori della formula volevano il divertimento come fine dichiarato e la pubblicità come appendice trascurabile: così l’anima sarebbe stata salva, o almeno l’anima non commerciale ma pedagogica della televisione come servizio pubblico.

Ma, per fortuna delle industrie, e per una provvidenziale vendetta della psicologia collettiva, questa formula ottenne un successo enorme: l'effetto fu proprio contrario a quello che si sarebbe voluto. Dapprima. Carosello ebbe successo per il solo fatto di esserci, per la novità; poi per la struttura narrativa molto semplice, per l'ancoraggio ai divi comici e musicali del momento, per gli spettacoli brevi ed essenziali (tra la noia dei telegiornali fatti di ministri che allora tagliavano in continuazione nastri inaugurali, e i ritmi lunghi dei "polpettoni" sentimentali che di norma li seguivano).. Carosello piacque quasi a tutti, ma fu specialmente il teatrino di tutti quelli che non andavano mai a teatro

Ma se si rivedono oggi, quasi tutti i Caroselli degli inizi sembrano lunghi, monotoni e ingenui: quelli che ricordiamo, e che rivediamo con piacere, sono in realtà pochissimi. Però allora funzionava in tutti un impasto imprevedibile: un'atmosfera spettacolare e magica collegava il prodotto all'attore o al cantante di successo che lo aveva preceduto, oppure alla fiaba del cartone animato, dove tutto era possibile. I pubblicitari furono bravi, inoltre, a sfruttare l'iniziale difficoltà della formula. Riuscire a rendere meno gratuito, o addirittura logico, il passaggio dallo spettacolo al "codino" fu la scommessa che impegnò per anni le migliori energie creative italiane.

Ai tempi di Carosello, poteva capitare che il legame fra l'intrattenimento e il prodotto fosse così naturale da garantire un accoppiamento immediato e saldo fra i due termini dello spot («Con quella bocca può dire ciò che vuole» del dentifricio Chlorodont, «Anch'io ho commesso un errore» della brillantina Linetti, «Or che bravo sono stato / posso fare anche il bucato?» di Candy); oppure lo spettacolo era ripetuto per anni («Caio Gregorio, guardiano del pretorio»), o ancora, il personaggio suscitava divertimento infantile o tenerezze materne (più di ogni altro, Calimero, il pulcino nero). Carosello faceva lievitare le vendite, diffondeva in tutta Italia prodotti fino. allora poco distribuiti, imponeva nuove marche, cambiava abitudini di consumo, di vita, di linguaggio. Unificava il mercato e, in qualche modo, come Mike Bongiorno e il suo linguaggio stereotipato ma comprensibile agli incolti, contribuiva a una nuova unificazione del Paese (e lo appiattiva, come dicevano i pessimisti).

La caratteristica principale di Carosello, e la chiave del suo incredibile successo, stavano nel fatto che quella particolare formula pubblicitaria presentava i consumi con il linguaggio (e con l'aura) della favola e del divismo, cioè dei linguaggi familiari alle masse, anche le più sprovvedute. Linguaggi familiari e suggestione del successo, magia delle star: non contava il marchio di fabbrica, contavano Ugo Tognazzi e Mina.

Così, all'Italia povera del 1957 e dintorni, Carosello fece apparire i consumi come un mondo di magia, come il regno di Bengodi. Favola per adulti, innanzi tutto, costituì la pedagogica iniziazione alla vita moderna delle masse contadine, dei recenti inurbati nelle fabbriche, dei piccolo-borghesi stremati dai miti del decoro e del risparmio. Il mondo dei consumi appariva sullo schermo come il paese di Cuccagna, come la rivalsa sulla povertà secolare e sulle miserie della guerra. La gente riceveva Carosello come il messaggio del nuovo paradiso, gli intellettuali ne parlavano come dell'inferno, alcuni artisti ne coglievano l'ambiguità.

Delle favole Carosello aveva la ripetitività e la ritualità, della magia serbava il meccanismo dello svelarsi-celarsi. L'azienda che conquistava un posto al sole di Carosello aveva diritto a un ciclo di soli sei spot, che "passavano" come si diceva in gergo, a distanza di ben dieci giorni l'uno dall'altro. Per garantire il carattere spettacolare, la parte d'intrattenimento doveva essere diversa (soltanto uno dei sei spot poteva essere ripetuto) ma il "codino" e il meccanismo di congiungimento con lo spettacolo precedente erano ripetitivi. Soltanto poche, grandi aziende avevano diritto a due cicli di trasmissioni, pochissime a tre, di solito per prodotti diversi; la penuria di apparizioni valorizzava i personaggi appena gli si era affezionati, la loro ricomparsa era salutata nelle famiglie come una festosa epifania.

Quei personaggi della pubblicità televisiva perpetuavano la tecnica del godimento estetico più elementare: le variazioni di alcuni elementi entro uno schema fisso, che era stato il metodo delle maschere nella Commedia dell'arte, e di Bonaventura, Marmittone, Sor Pampurio, Bibì e Bibò sul Corriere dei piccoli.

Ripetitivo ma razionato, Carosello era soprattutto rituale. Era un teatrino che compariva a un' ora fissa, con una musica tradizionale e allegra, e con una serie di svelti siparietti sui luoghi comuni del folklore italiano. Dove c'è rito, c'è sempre un po' di religione: così Carosello accreditava e accentuava la funzione pedagogica della pubblicità a vantaggio dell'intero sistema dei consumi e di un nuovo modo di vivere, insegnava il distacco dalla morale della rinuncia a favore della voluttuosa immersione nel possesso e nel godimento della vita.

Questo era Carosello, favola e scuola per gli adulti. Ma ancor più era favola per i bambini. La ripetitività delle storie e la ritualità della rubrica ne fecero un appuntamento obbligato per i piccoli. Nelle famiglie più ordinate, la pubblicità chiudeva la giornata dei bambini, che presero ad andare a letto «dopo aver visto Carosello»; andarci senza aver visto l'amato spettacolino, era la minaccia più temuta dai bambini delle famiglie non ancora permissive. Jo Condor, Calimero, Caio Gregorio, Gatto Silvestro, l'ippopotamo Pippo, gli Antenati, Ulisse e la sua ombra, Olivella, Topo Gigio, entrarono a far parte dell'universo infantile, come - nelle generazioni precedenti - Bibì e Bibò, Bonaventura, Martin Muma più leggero di una piuma.

Gli esempi di film pubblicitari più vicini ai meccanismi delle favole sono le serie del "Gatto Silvestro", apparentemente così violente, e di "Calimero". Quest'ultimo, divenuto oggetto di tesi di laurea e di analisi psicologiche approfondite, è l'equivalente moderno del "Brutto Anatroccolo" di Andersen: ogni pulcino, ogni bambino è piccolo e perciò si sente "nero", cioè diverso, in un mondo ostile di adulti, che ti fanno sbagliare e poi ti giudicano. Ma la fata buona ti capisce e ti consola, ti rende bianco come il brutto anatroccolo trasformato in cigno.

Carosello fu trasmesso per la prima volta il 3 febbraio 1957; sarà un caso, ma gli economisti, sulla base dell’aumento del prodotto interno lordo, considerano che il miracolo economico sia cominciato l’anno dopo, nel 1958 per durare fino al 1969. E, se non ne è stato la causa, certamente Cxarosello accompagnò il miracolo economico, incentivando i consumi, quindi la produzione, e cambiando totalmente le abitudini degli italiani.

Ma Carosello non cambiò soltanto i consumi, le abitudini igieniche ed alimentari, la pulizia della casa e della biancheria. Un acuto giornalista scrisse qualche anno dopo che “la pubblicità rivelò alle donne del Sud, impaludate di nero e umiliate nella servitù domestica, non soltanto l’esistenza di comodità quali lavatrici e aspirapolvere, ma anche di valori quali la salute fisica, la bellezza, la femminilità in quanto tale. Si verificò rapidamente uno spostamento sismico nella concezione della vita in milioni di teste”.

Ciò nonostante, Carosello fu osteggiato per tutta la sua vita ventennale (durò fino a tutto il 1976). Dalle aziende straniere, anzitutto, che non capivano perché bisognasse perdere tempo per un minuto e quaranta secondi (poi ridotti ad un minuto soltanto), prima di parlare del prodotto; da molti pubblicitari italiani che vedevano sempre i propri Caroselli esclusi dai premi dei Festival internazionali di Cannes e di Venezia, perché incomprensibili alle giurie e fischiati dai pubblicitari stranieri; e osteggiato anche dai produttori dei filmati pubblicitari che avrebbero voluto una pubblicità senza regole e senza costrizioni.

Questa pubblicità senza regole l’hanno ottenuta, dal 1977. E noi ce la godiamo.